Corrispondenze/coincidenze
di Pierantonio Pardi - domenica 08 dicembre 2024 ore 08:00
Giorni fa, mi sono imbattuto in questo romanzo di Sara Ficocelli, autrice che già conoscevo per aver letto il suo primo romanzo “La vita nascosta” pubblicato da quella piccola, ma gloriosa, originale e combattiva , casa editrice pisana MdS, con cui ho collaborato, curando l’antologia “Cento di questi sogni – viaggio tra i generi letterari “ nel 2016, ma le corrispondenze/coincidenze non finiscono qui perché una ragazza con una storia simile a quelle di Samia, la protagonista del suo romanzo è stata studentessa dell’Istituto “Santoni” in cui ho insegnato per vent’anni letteratura a chi ne avrebbe fatto volentieri a meno e allieva di Carmela, madre di Sara, mia collega e prof di diritto. Tra l’altro sono venuto a conoscenza di questo particolare da un ‘intervista rilasciata da Sara ( adnkronos , novembre 2018)
Ma, tornando al primo romanzo, ero stato colpito dalla storia di Iris, transessuale romana che si prostituiva nei quartieri alti di Roma, sognando però di cambiare vita; una storia dolente e tragica centrata sul tema dell’emarginazione e della volontà di riscatto. Ci sono molte analogie tra questo primo romanzo e “Samia non torna a scuola” che mi premeva di inserire nel mio blog “Le pregiate penne” che racconta, è vero, solo romanzi e racconti di autori toscani, ma Sara Ficocelli , anche se da anni vive a Roma dove scrive per Repubblica.it, è nata a Pisa e il suo ultimo romanzo si intitola Niente di male (Astarte edizioni).
Procederò quindi, come da prassi ormai consolidata, presentando il plot, preso dalla seconda di copertina, seguito dalla nota introduttiva di Fabrizio Bartelloni, curatore per MdS della collana Cattive strade (titolo in omaggio al mitico Faber, il cantore degli ultimi)di cui fa parte questo romanzo.
Il plot in breve
Colle Nuovo è una cittadina di 80 mila abitanti circondata da piantagioni di pomodori. È in questo contesto che vive Samia, adolescente somala di seconda generazione che adora l’inglese e i sogni a occhi aperti. A scuola non è integrata ma il carisma dell’insegnante di italiano e il pragmatismo della supplente di inglese la aiutano a sopportare tutto. Persino il peso di alcune lettere di minaccia… E poi c’è Davide, il suo amore impossibile. Questo libro racconta la storia degli ultimi due mesi di scuola di una seconda classe come tante, “la più difficile dell’Istituto”, e di una gita di istruzione che è anche metafora di un viaggio più grande: quello alla scoperta di sé stessi, attraverso la messa in discussione di ogni certezza. Perché non è mai troppo tardi per salvarsi.
La nota del curatore
Se c’è una cosa che a Sara Ficocelli non fa difetto, è di sicuro il coraggio. Certo è normale, per una collana che abbia fra i suoi propositi quello di offrire ai lettori un punto di vista sempre altro, una focale non convenzionale con cui osservare il mondo che ci circonda, richiedere ai propri autori una certa dose d’audacia, ma è indubbio che l’autrice de “La vita nascosta” non abbia timore, ma anzi si trovi a proprio agio, nell’avventurarsi in territori e realtà complessi, contraddittori e scomodi. Là, nel suo primo romanzo, la banlieu romana, violenta e sconosciuta, dove si consumano i destini senza Storia di chi è condannato a una vita ai margini, qui, in questo secondo viaggio lungo le “Cattive strade” il mondo della scuola, riduzione in scala della società civile dove altri destini, alcuni ancora da compiersi e altri già consumati, si mescolano e confondono loro malgrado. Pare essere proprio quest’ultimo aspetto a stimolare la curiosità dell’autrice, ossia l’immergersi in quell’humus fertile di storie, esperienze, vissuti che si forma quando mondi all’apparenza estranei se non addirittura ostili l’uno all’altro, sono costretti al confronto, quando la vita impone ad attori diversi per formazione, impostazione e provenienza di recitare sullo stesso palcoscenico. La storia di cui Ficocelli parla in questo libro, una ragazzina somala costretta a sommare le fatiche di un periodo difficile come l’adolescenza con quelle, anche più dure, dell’integrazione in una scuola italiana dove la parola accoglienza sembra essere stata bandita, non è lontana dall’ Aneta de “La vita nascosta”, la giovane Sinti fuggita dall’ambiente conosciuto e a suo modo ordinato del campo, ed esposta senza protezione all’arbitrio dei gegé . L’una come l’altra sentono di non appartenere più, o almeno non completamente, alla realtà da cui provengono, di non condividerne più le regole, i costumi, le imposizioni e scelgono di affrontare il mare aperto, di spingersi così a largo con le ,loro piccole imbarcazioni da correre il rischio d’essere travolte dai marosi. Sono audaci e coraggiose, così come quell’autrice di cui sono, a tutta evidenza, emule e portavoce, proprio per la loro determinazione nell’addentrarsi, a dispetto d’insidie, trabocchetti e pericoli, in quel labirinto di Cnosso che è la vita, tessuto di trame con infiniti fili, dove può capitare che a darti aiuto e sostegno sia proprio chi pensavi di dover temere di più. Dove chi ti può salvare alla fine, è davvero lui, il Minotauro.
Arguta e intelligente questa nota di Bartelloni, che ha focalizzato, nei loro nuclei narrativi, le tematiche essenziali dei due romanzi, impreziosite nel finale da un’originale metafora.
Ma, a questo punto, vorrei sviluppare una mia riflessione narratologica.
Leggendo questo romanzo, pagina dopo pagina, mi turbinava nella testa, chissà perché un nome; era una specie di ronzio intermittente che non mi dava pace, finché alla fine mi è balzato davanti agli occhi: l’ école du regàrd (scuola dello sguardo)… ecco il nome che cercavo!
L’école du regard è una caratteristica del Nouveau Roman, una corrente letteraria nata in Francia tra gli anni 50 e 60 del XX secolo; è un’etichetta che raggruppò autori come M. Butor e A. Robbe Grillet. In sintesi loro affermavano che “ vi è romanzo perché vi è lo sguardo”. Capovolgendo la concezione antropocentrica tipica della narrativa di genere, questi scrittori avrebbero infatti assegnato alle cose, passate in rassegna dallo sguardo, il ruolo fondamentale del romanzo, annullando del tutto la figura e la funzione del personaggio.
Ora, che c’entra tutto questo con il romanzo di Sara Ficocelli, centrato non su un personaggio, ma su vari personaggi che in una narrazione multipla si raccontano e ci raccontano la loro storia?
Ecco, il punto è questo: Sara è stata bravissima ad evitare due stereotipi che si incontrano quando si decide di raccontare una storia “forte” come la sua: il primo, il tono di denuncia politica e sociale, la condanna della politica che disprezza gli extracomunitari e le tematiche dell’integrazione (mai come ora, tra l’altro, con questo governo di dementi); il secondo, cedere all’istinto maternalistico, l’indulgere alla piètas che poi si traduce appunto in una protezione simile a quella che Manzoni rivolgeva agli “umili”.
Con questo escamotage l’autrice ha quindi eliminato il rischio di servirsi o diventare narratore onnisciente.
Sì, ma che c’entra il nouveau roman?
Il meccanismo narratologico creato da Sara somiglia quasi ad una pièce pirandelliana, dove i personaggi entrano in scena e si auto presentano senza intermediari, esibendo i loro disagi senza giri di parole e costringendo noi lettori ad entrare nelle loro storie e nelle loro vite, insomma a gettare lo sguardo sulle loro vite. I loro racconti, tutti sotto forma di monologhi, catturano lo sguardo, sono catalizzatori, il loro linguaggio è azione, movimento, scena e il nostro sguardo si focalizza su ognuno di questi frammenti.
E l’analogia non finisce qui.
C’è da dire, infatti , che la tematica dello sguardo è un’ossessione di Robbe Grillet, perché altri scrittori elaborarono tematiche diverse, mettendo in discussione la trama, la psicologia dei personaggi e la funzione del narratore onnisciente, attaccavano i presupposti di un impegno politico di tipo contenutistico, per spostare l’attenzione verso una maggiore attenzione alle forme soprattutto alle strutture della narrazione. Piuttosto che come la narrazione di un’avventura, i romanzi in questione si configurano come l’avventura di una narrazione, come dice Jean Ricardou.
Ed è quello che succede, a mio avviso, nei singoli monologhi di Andrea, il prof d’italiano, della prof. d’inglese, di Davide, di Samia, di Sonia, di Alina. Le loro sono avventure di una narrazione.
L’altro elemento nuovo di questo romanzo è che tutti i protagonisti sono accomunati, quasi in una sorta di affinità elettiva, da disagio, fragilità, crisi di identità, smarrimento. E quando scrivo tutti, intendo anche i prof.
Andrea, il prof d’italiano, con un passato da ex tossico e una situazione sentimentale molto confusa, la supplente d’inglese tatuata e punk con un passato da naziskin, che adesso rinnega, ma che, insieme ad Andrea, sarà la prima ad empatizzare con Samia, e poi lei Samia, innamorata di Davide che forse ha scritto quella frase “sporca negra non ti vogliamo in gita” (ma si scoprirà che non è stato lui) e terrorizzata da Asad, il fratello “talebano” che la vuole spedire in Somalia a sposare il cugino di 17 anni più grande e Davide, travolto da un ossimorico sentimento di attrazione/repulsione verso Samia e infine il momento clou, la gita a Barcellona dove si verificheranno numerosi colpi di scena che mi guardo bene dal raccontarvi, insomma tutti elementi di un puzzle che andrà a ricomporsi lasciando ovviamente molteplici finali aperti.
Quello che mi ha colpito in questo romanzo, al di là della storia tragica e attuale legata alle problematiche dell’integrazione descritta tra l’altro senza retorica e senza la ricerca di effetti speciali, è stata la tecnica narrativa che ho trovato originale e di grande leggibilità; un romanzo polifonico dove una storia si sovrappone ad un ‘altra, in un alternarsi di punti di vista a configurare un microcosmo a tratti crudele a tratti di una commovente umanità.
Ed è stata originale la scelta di mettere sullo stesso piano insegnanti e studenti abbattendo così quella barriera istituzionale, spesso formale, che si crea tra loro. Accomunarli nella stessa noia, nell’identico male di vivere dove “il varco” è però a portata di mano; basta solo avere il coraggio di strappare il sipario, guardarsi negli occhi e comunicare, mettersi a nudo. Ecco, questo è il messaggio, nemmeno troppo subliminale, che Sara Ficocelli ha voluto regalarci con questo romanzo. E lo ha fatto in modo strepitoso.
Pierantonio Pardi