Le feste comandate
di Marco Celati - sabato 21 dicembre 2019 ore 13:49
Tutte le feste al tempio. Non è facile entrare nello spirito delle feste. Detesto le feste. Quelle per obbligo di calendario che bisogna divertirsi per forza e magari non se ne ha voglia o proprio non ci si fa. E non lo dite alla mia compagna che non se lo merita uno stronzo, mutanghero come me. Ma tanto nessuno ascolta nessuno. Lo spirito del Natale poi è difficile coglierlo, se non si è credenti e forse anche se lo si è. E non è nemmeno detto che ci venga in sogno, come nel racconto di Dickens, a farci redimere per paura, pentimento e vergogna. Troppe luci, troppi gli addobbi, i rumori, i richiami, i commerci, le liete, estenuanti carole natalizie. La frenesia del Natale. E tutto sembra così pagano, perfino a un miscredente, per apparire sacro. Sacro da ricordare il giorno della nascita di un bambinello palestinese, riscaldato dagli animali della stalla, nella povertà e nell’esodo di un presepe che presagiva amore, croce e resurrezione. Il figlio del Dio del Nuovo Testamento, venuto al mondo per provare a salvarlo. Ad annunciare che tutti gli uomini sarebbero nati fratelli e l’un con l’altro dovrebbero amarsi. Il condizionale è d’obbligo, ma l’arbitrio e la consecutio temporum sono soltanto roba nostra.
E poi ci sono i regali da fare e da ricevere. Che ansia bellissima e che trepida attesa conservo come sensazioni di memoria dell’infanzia! Che pure non ricordo così felice. Ma aspettare i regali e scartare i pacchi, incartati per creare ancora più attesa e sorpresa, quello lo ricordo. Anche se poi non era molto, anche se poi era poco, era quel poco che potevamo e che bastava. Perché era comunque di più. E anche solo di più era tanto. Era un regalo. A volte penso che si diventa vecchi perché quell’attesa non c’è più, non ci sarà più. E se si è brave persone, quando ci capita di esserlo, si può solo provare a trasmettere ad altri, i figli, i nostri cari, quel senso di attesa e di sorpresa, quel di più che a noi non è bastato, che non abbiamo saputo mettere a frutto o, peggio, abbiamo sprecato.
Un anno a Natale, ai figli che spesso mi chiamavano, più per affetto che per competenza, a fare lavori casalinghi, decisi di regalare a sorpresa, a ciascuno dei due, un trapano avvitatore a pressione di una marca piuttosto nota. Di quelli a pila. E scrissi loro nel biglietto: siete grandi ormai e danni potete farli anche da soli. In questo consiste, in fondo, il fatto di essere grandi. Da loro, in passato, ero stato capace di forare con il mio vecchio trapano -di quelli che si attaccano alla corrente- il tubo dell’acqua, allagando il bagno. E un’altra volta di centrare il filo della luce, facendo saltare l’impianto. E bisogna ringraziare il salvavita che per fortuna si chiama così per quello. Una volta ancora, fissando il bastone delle tende, sono cascato dallo scaleo con il trapano in funzione, schivando mio figlio, esterrefatto. Quella volta mi salvò il muro dove atterrai di spalla che non gradì e dolse a lungo, povera spalla, ma meglio lei che io, la testa voglio dire. Nella testa, oltre che nel cuore, risiedendo in gran parte la vita umana. E i miei figli, che forse non a caso sono figli a me, cosa avevano pensato di regalarmi, quel Natale, altrettanto a sorpresa? Un trapano avvitatore a pressione di una marca piuttosto nota. Lo stesso identico che avevo regalato loro. Deve essere un fatto genetico. Anche il loro, come il mio, acquistato su Amazon. Siamo gente moderna. Non necessariamente originali, ma moderni. Ora ognuno ha il suo trapano e la sua vita. È la vita in fondo. È così che va e che deve andare, senza necessariamente uccidere il padre. Ma quando li abbiamo scartati insieme, i regali, quella sì è stata una sorpresa davvero! E ora a ricordare quel Natale c’è una foto di noi tre con i trapani: il signor Black al centro e, ai lati, i suoi amati figli And e Decker. Sembriamo la banda del buco. Le foto sono intriganti e malinconiche, come i ricordi, come lo spirito del Natale.
Questo Natale un mio figliolo va al Sud, scende, dalla famiglia di sua moglie. Si dice Natale con i tuoi. La Pasqua si vedrà. Con chi vuoi. Ma chissà chi sono i tuoi. Quelli che la vita ti ha dato o ti ha tolto? Quelli che ti hanno avuto e perso? Quelli che hanno saputo esserlo o quelli che non ci sono riusciti o non ne sono stati capaci? Oppure quelli che ti sei scelto per amore o per caso. Dov’è la casa ed è lì che si torna? Dov’è la vita, nelle case che si va? Dove si fa il Natale.
E forse vorremmo che Natale fosse suonare alla vicina del condominio che sono giorni che ha steso il bucato e lo ha lasciato fuori, abbandonato alla pioggia, e sentire come sta. O dare una moneta all’uomo che la chiede per strada e si vergogna a farlo. E prova vergogna più di me per la vergogna della vita. E quella del mondo. O pensare che non occorrerà più che donne, uomini e bambini vaghino per la terra riarsa senza pace o giustizia. O per mare, senza salvezza di porti. E non importerebbe nemmeno che gli ultimi fossero i primi e viceversa. Ci basterebbero uguali. E liberi. Tutt’al più si può accettare che esistano cime di montagna e cime di rapa. Ma anche le cime di rapa hanno il loro perché. E se quel bambinello non lo incontreremo più in questa vita, che almeno sentiamo la sua mancanza. Nell’anno e nel mondo che verrà. Chissà se un nuovo anno e un nuovo mondo sono davvero possibili, intanto Buon Natale, buon Anno e buona fortuna.
Pontedera, Festività 2019
Marco Celati