Testamento & Commiato
di Marco Celati - giovedì 15 febbraio 2024 ore 08:00
Una bellissima poesia della grande Anna Achmátova dice: “Il nostro sacro mestiere/ esiste da millenni./ Con lui al mondo non occorre luce:/ ma nessun poeta ha detto ancora/ che la saggezza non esiste,/ che non esiste la vecchiezza/ e forse nemmeno la morte”.
Per qualche avara lettura conosco questa poesia e alcune altre della poetessa russa, o “poeta” che dir si voglia, secondo il dettame del genere o del costume, inteso come moda. Conosco questa, nella fattispecie, per averla appresa da Gianrico Carofiglio -bravo scrittore e può darsi a suo tempo anche magistrato- nel romanzo “Non esiste saggezza”, a cui la poesia ha dato l’ispirazione e il titolo. L’ho letto il libro -giuro- anche se non ricordo più di cosa parla, però ricordo che mi era piaciuto: Carofiglio scrive bene, buon per lui. La memoria a una certa età, questo può e contentiamoci. Ma torniamo al tema.
Ecco io, con tutto rispetto e grande ammirazione, sono d’accordo con l’Achmátova solo per il verso che dice la saggezza non esiste. Per il resto invece al mondo di luce ne occorre, eccome. E non so nemmeno se per questo possa bastare il millenario e sacro mestiere dei poeti, che tuttavia non sarò certo io a disprezzare. Soprattutto c’è una ragione per cui nessun poeta, pur convenendo sull’assenza di saggezza, non ha ancora detto che la vecchiezza non esiste e forse nemmeno la morte. Per il semplice fatto che, licenza e fascinazione poetica a parte, nessuna delle due supposizioni è vera. La vecchiaia esiste e si vede e la morte non è un mistero, ma una certezza. La vita, a partire dalla nascita, è un conto alla rovescia. È vero semmai che le due proposizioni, a seconda del tempo, possono considerarsi antitetiche: se, o finché, invecchi non muori e, sopratutto, se muori non invecchi più. Comunque alla fine, normalmente, s’invecchia e si muore. Atroci sono le morti premature, specialmente quelle innaturali che sottraggono figlie e figli alle madri e ai padri.
Ho visto sgorgare l’acqua dalla terra africana e persone, felici, abbracciarsi e ho avuto figli, nipoti, amori, compagni, perfino qualche amico. Per quanto ho vissuto. Ma ho visto mia madre morente, poco più che quarantenne, ridotta ad uno scheletro. Irriconoscibile. E mio padre, a sessantacinque anni, vomitare sangue e polmoni sul letto di morte. Sono campato di più dei miei genitori, di chi mi ha dato alla vita e al mondo. E allora penso e spero un’altra cosa. Di fronte alla certezza della morte, quando si prefigura l’ineluttabilità di un dolore disumano, del male corruttore del corpo e della mente, l’eutanasia deve essere possibile e legalmente autorizzabile, su richiesta dell’interessato. E deve essere un fatto privato, ma pubblico. Tutti abbiamo diritto a una morte dignitosa e senza atroci sofferenze per noi e i nostri cari. E non è questione di coraggio o di viltà. Nessuno deve essere costretto o lasciato a soffrire e nessuno dei nostri discendenti o delle persone che ci vogliono bene deve subire il peso della nostra vita o della nostra morte. Hanno già i loro pesi a cui pensare.
Ci devono essere delle strutture pubbliche dove veniamo presi in cura per la nostra morte, così come ce ne sono state per la nostra nascita. Strutture del commiato. Quando sarà il momento, alla presenza dei nostri cari, assistiti da psicologi, come lo fummo, nascendo, dalle levatrici, saremo sedati e, senza sofferenza, accompagnati e introdotti nel sonno senza risveglio della morte. L’ultimo sonno. E vaffanculo. Lo so che un giorno sarà così, lo spero. E sarà una possibilità per tutti coloro che desiderano lasciare in pace questa vita e questo mondo, senza lo stravolgimento del dolore o il terrore della fine. Per ognuno di noi e non solo per i ricchi. Nemmeno per i depressi, per quanto spesso si avverta l’insensatezza di vivere. Il diritto ad una buona morte deve essere compreso nel diritto ad una buona vita. E viceversa.
Vi ho amato, mi avete amato, vi ho voluto bene, me ne avete voluto, vi ho servito, mi avete servito, ho fatto il mio dovere o del mio meglio, forse anche del mio peggio, ma ora lasciatemi andare. Addio. Finché mi ricorderete sarò con voi, nel cuore o nella mente. O in entrambi, che non è controindicato. Pianto e riso saranno ugualmente previsti e compatibili. Poi sarà l’inevitabile, comprensibile, compassionevole oblio. Anch’esso un diritto, in fondo. Speculare alla memoria. Dio, la religione si adatteranno, come sempre: nessun Dio, nessuna fede possono volere o sostenere il dolore assoluto della morte. Nemmeno le divinità invidiose della felicità degli uomini. Nemmeno le religioni che predicano il riscatto tramite la sofferenza, perché a tutto c’è un limite umano: “Eloì, Eloì, lamà sabactáni?”. E, pur essendo lecito e auspicabile prolungare l’esistenza tramite la scienza medica e una migliore conduzione della vita, noi, poveri Cristi, nasciamo mortali. Se Dio vuole! Sai che palle, una vita eterna! Bel mi’ mori’!
Non so ancora quando sarà per me, ma sarà. Un’altra legislatura, altre due? Troppo? Si dice sempre non è mai troppo tardi, ma chissà. E non sarà nemmeno lecito invocare le primarie, intanto che penso a vivere o credo di vivere. Tocca a me. Non so per cosa sarò valutato e ricordato: per ciò che ho fatto, ciò che ho sbagliato. Quello che ho lasciato. Mi piacerebbe essere ricordato perché ho amato o voluto bene. E se lo sono stato, amato e voluto bene. Allora, in piena lucidità mentale e capacità di intendere e volere, lo lascio detto ai miei figli, ai miei cari, ai familiari, che però non leggono più tutte le fregnacce che scrivo. Semmai qualcuno glielo riferisca. All’infuori di voi, che siete tanto, non ho altro da lasciare. Niente. Meglio, credetemi. Se sarà possibile e socialmente previsto, vorrei che fosse così. Andarmene bene e non da solo. Senza soffrire più del dovuto, senza rompere i coglioni a nessuno. In vostra compagnia, col vostro conforto - non troppi parenti- e sarò stato fortunato. Grazie.
Marco Celati
Pontedera, Febbraio 2024
_______________________
Secondo le versioni evangeliche di Marco e Matteo, all'ora nona -le tre del pomeriggio- Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lamà sabactáni?”, che, in ebraico-aramaico, vuol dire: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Nella foto: “Projet hydro agricole”, le château d’eau, Khombole, Senegal 2009.
Marco Celati