L'Oscuro
di Marco Celati - mercoledì 20 ottobre 2021 ore 07:30
Sono criptico. Lo so. Ermetico come la poesia. Ma così mi piaceva esprimermi. Lo stesso Socrate, che è venuto dopo di me, aveva problemi a comprendere i miei aforismi. Lui che ripeteva “so di non sapere” e in realtà si schermiva e sapeva più di tutti, diceva che i mei pensieri raggiungevano le profondità dei tuffatori di Delo. E mi piace come paragone, che fosse vero o meno. Mi rende fiero, sento che qualcosa vi ho lasciato, esplorando le vertigini della mente, indagando l’essere e il divenire degli uomini e delle cose. E nonostante quel poco che resta di me, come di ognuno, ho influenzato in qualche modo i pensatori e i pensieri che sono venuti dopo: da Platone, di cui Socrate fu maestro, all’allievo di Platone, Aristotele, che ha conosciuto la mia opera. Fu proprio lui a definirmi “l'oscuro”. E così sono diventato per tutti e per sempre: l’oscuro. Lo stoicismo, per dirne una, ripropone la mia concezione della vita e della fisica e pure la teoria del logos. Che sarebbe verbo, logica, calcolo, pensiero, parlare e ascoltare…Ma che ve lo dico a fare? Sono l’oscuro? E oscuro rimango.
Anche Socrate alla fine non lascerà scritto nulla. A pensarci bene scrivere è sprecare carta preziosa e a scrivere si comunica una rigida dottrina, ma non si stimolano pensiero e ricerca. Non si fa filosofia. Lo so, lo so che, specie al vostro tempo, c’è chi pensa che la filosofia è quella cosa per la quale o senza la quale tutto resta tale e quale. Ma voi siete barbari, primitivi, e vorrei dire cinici. Sennonché i cinici erano gente che per scelta praticava uno stile sobrio e castigato di vita: vivevano come cani e rifuggivano onori e ricchezze, le vere miserie degli uomini. "Tutti quelli che vivono sulla terra sono condannati a restare lontani dalla verità a causa della loro miserabile follia": l’insaziabilità dei sensi e l’ambizione del potere. Lo dissi anche a Dario, il Re di Persia, che aveva letto il mio libro “Sulla natura” e mi voleva a corte. Rifiutai, naturalmente. E ho paura che voi “moderni” siate cinici, senza filosofia. Ma non mi fate perdere il filo della logica.
Della mia vita si sa poco e dei miei pensieri sono sopravvissuti, attraverso testimonianze, solo pochi frammenti. Sono nato ad Efeso, 535 anni prima dell’avvento del vostro Cristo, da una famiglia aristocratica. Mio padre era un discendente di Androclo, il fondatore della città, e possedeva mezzo stadio di terra e una coppia di buoi, che allora era tanto. Nonostante le nobili origini non mi interessavano né il potere, né la ricchezza; infatti, seppur come primogenito avessi diritto al titolo onorifico di basileus – che veniva da pastore e stava per re o sacerdote – ci rinunciai in favore del fratello minore.
Efeso stava in Anatolia, per voi oggi la Turchia. Era un’importante città ionica, diverrà poi una provincia romana dell’Asia. I romani conquistatori! Ad Efeso c’era forse il più grande e celebre monumento dell’antichità: il Tempio di Artemide. Considerato allora una delle sette meraviglie del mondo. Oggi ne resta a voi una sola colonna, sarà raso al suolo dall’Arcivescovo di Costantinopoli, Giovanni Crisostomo, nel 401. Tutte le fedi feroci distillano veleno. In quel Tempio ho custodito le mie memorie e coloro che le hanno conosciute le hanno tramandate a voi come frammenti. Una sola colonna e frammenti del pensiero, questa è la storia.
E io proprio nel Tempio di Artemide avevo scelto di vivere, in solitudine, lontano dal desiderio, rifuggendo ogni privilegio e accontentandomi del poco. Pensate che il mio distacco dai beni materiali e il disprezzo per il potere e la ricchezza, non piacevano nemmeno agli Efesini, i miei concittadini, gente per lo più invidiosa e ambiziosa. Le città della Grecia antica sono state la culla della civiltà e della democrazia: avevamo gli schiavi, è vero, le donne non partecipavano, né coloro che erano fuori dalle nostre mura, ma eravamo liberi, forse non uguali, ma liberi e tutti avevano diritto di cittadinanza. Nessuno era considerato uno straniero. La democrazia, la repubblica le abbiamo inventate e tramandate a voi perché le miglioraste e non ne faceste scempio. Eravamo cittadini, ma la gente… Oh, la gente è terribile! Si adatta ai modi più turpi, si agita e si fa agitare dai demagoghi di turno, rivendica gogne e le allestisce, alleva e asseconda i tiranni. Con accuse infamanti e inventate hanno mandato a morte Socrate. Socrate che fu il primo a concepire l’anima come la coscienza pensante di ognuno e non un demone divino. Condannato alla cicuta. Un genio, un saggio, colui che inventò il metodo dialettico di indagine filosofica che Platone vi tramandò nei suoi scritti come “maieutica”, la disciplina levatrice dei pensieri. Il nostro mondo e i nostri Dei hanno generato e permesso quest’orrore.
Per questo il libro che ho deposto nel Tempio è scritto, per mia intenzione, – lo sostiene Diogene Laerzio – in forma oscura. Perché fosse compreso da quelli che ne avessero avuto le capacità, i più preparati o anche solo i più sensibili, e non dal volgo che ne avrebbe fatto scempio o, al più, tratto consuetudini superficiali e conformiste. “Uno è per me diecimila, se è il migliore”. Comunque, devo dirvi una cosa e non so se sia la verità: per quanto ci si provi, è difficile conoscere davvero sé stessi. Ma io sono sempre stato una persona melanconica. È la mia indole e mi piace così, perché così penso che siano le persone più serie. Le persone per bene. E forse anche per questa mia melanconia non sempre ho portato a termine il mio scrivere, l’opera mia, e ne ho scritto in forma discontinua, frammentaria. Pensieri, come racconti brevi. Quasi poesie, in forma di prosa. Ci saranno in futuro autori cosi.
Gli ultimi anni della vita li ho trascorsi ancora più isolato, sui monti, cibandomi di sole piante, adottando una dieta strettamente vegetariana. A molti del vostro tempo sarei piaciuto. Ma ero quasi un eremita. Contrassi un male chiamato idropisia. Umori maligni dentro il corpo. Tornato in città, chiesi ai medici, in forma di enigma, un rimedio al male: se fossero capaci di far sì che dall’inondazione venisse la siccità. Ma quelli non comprendevano e allora sono morto: Eraclito di Efeso, l’oscuro, è morto. Era il 475, avevo sessant’anni. E che vale dirvi che sarebbe stato perché mi sono sepolto in una stalla sotto il calore dello sterco degli animali, sperando invano che l’umore evaporasse? O che mi sarei disteso al sole facendomi ricoprire dai ragazzi di sterco animale e, una volta defunto, sono stato seppellito nella piazza o, peggio, divorato dai cani? Che io sia annegato nella merda o morto per altra causa o malattia, che importa alla fine? La fama e lo sterco sono due facce della stessa medaglia, un po’ come la vita e la morte. Sono antitesi, contraddizioni che tengono. Dicotomie coessenziali. Una terza via non c’è data, dirà la logica di Aristotele, con i suoi sillogismi e il principio di non contraddizione. Questo meditavano i suoi allievi alla Scuola di Atene passeggiando intorno al Ginnasio – dove si fa ginnastica per il corpo e la mente – sotto i porticati, i peripatoi e per questo si chiamavano peripatetici. La Scuola si trovava presso il santuario dedicato ad Apollo Licio, perciò era detta anche Liceo. Ma per me la realtà consiste in una combinazione equilibrata di tendenze che si contrappongono e dietro a questa "lotta degli opposti" esiste un'armonia nascosta che è il mondo. E Polemos, il demone della guerra, padre di Alalà, quella del grido di battaglia, è il re di tutte le cose. Ma non mi riferivo alla guerra delle armi, bensì alla battaglia delle idee, della logica. La polemica. Finché si vive non c’è la morte. Una volta morti, non c’è più la vita. E questo sarà poco ed oscuro, ma è sicuro. Si vive, si muore e tutto passa. Tutto si tiene, si trasforma e diviene.
Già: “pánta rei”! Tutto scorre, per questo vado famoso. E pensare che nei miei frammenti questo detto non compare. È da attribuirsi al mio discepolo Cratilo a cui spiegai che “non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va”. Tutto viene e va: la vita, le cose, tutto cambia. Forse solo il logos è unico, ma anch’esso assume le innumerevoli forme del mondo, perché l’universo e la natura sono equivalenti a Dio: in loro risiede la divinità. E per questo “tutto è Uno e l’Uno è tutto”. Si chiama panteismo. Il logos è il discorso, la parola, la logica del pensiero e l’intuizione. L’intelligenza oltre l’erudizione. È conoscenza e la conoscenza è la visione del mondo mutevole.
Ai miei tempi c’era chi sosteneva invece che l’essere è dato per sempre, una volta per tutte, in quanto tale e così resta. Immutabile. Parmenide, ad esempio. Anche allora erano invalsi i dogmi assoluti e sempiterni del vero. Guardatevi dai ragionamenti apodittici, dal pensiero assoluto. Sono mostri della ragione e della fede. Il fiume scorre, la campagna varia e noi siamo perché saremo. E per noi vorrei dire tutti, ma dico i migliori, coloro che ne possano avere coscienza e speranza. Dico i migliori perché la diffidenza mi fa propendere per gli aristoi, ma non sono per l’oligarchia, né per la monarchia. È vero, o almeno io lo penso: “gli uomini non sanno cosa fanno da svegli, così come di quello che fanno dormendo non hanno memoria”. Perché gli uomini superficiali, i più, sono come dormienti. Ma quelli di loro che indagano l’anima umana infinita, risvegliano la nostra coscienza. E quindi possono svegliarsi e divenire migliori. È possibile dunque non essere volgo, senza essere oligarchi. Possiamo “iniziare” ed “iniziarci” alla consapevolezza e alla comprensione. Sì, sono stato un seguace della tradizione orfica e dionisiaca, lo ammetto. La tradizione che ha influenzato la scuola filosofica e matematica di Platone. Ognuno di noi è figlio del proprio tempo e del mito. Viene dalla propria caverna e ne è prigioniero. Solo ombre si vedono, e quelle ombre proiettate dal fuoco, sembrano prendere forma e vita, rivolgendosi a noi. Che dobbiamo distinguere tra mito e realtà, tra la luce del sole e l’ombra della terra.
I filosofi greci hanno cercato fin dal loro primo ragionare, l’archè, l’origine dei fenomeni naturali. E l’hanno cercato negli elementi: acqua, terra, aria, fuoco. Oppure, come Platone, in una realtà trascendente, il mondo iperuranico delle idee. Si dice che per me l’origine fosse il fuoco. Ma per me il fuoco era una metafora: sempre vivo e in continuo movimento, uguale a sé stesso e tuttavia diverso. Gli opposti, nascita e morte, l’inizio e la fine, sono come il fuoco che ora si accende e ora si spegne, rappresentano la realtà fondamentale, il divenire. Il fuoco è una metafora del divenire. Il logos è il divenire.
Nel corso del tempo mi hanno raffigurato in tanti modi, calvo o incanutito, barbuto alla maniera orientale, così come nei busti scultorei che mi hanno attribuito. Spesso sono ritratto con la sfera del mondo. Opere di fantasia. Fole. Il Bramante mi dipinge accanto a Democrito, il teorico dell’atomismo. Democrito è ritratto sorridente, il filosofo del sorriso: devono aver confuso atomismo con ottimismo. Raffaello invece mi dà le severe fattezze di Michelangelo. Sono sempre ritratto serio e triste, il filosofo del pianto. Dante mi cita nella Commedia, all’Inferno, ma fra “gli spiriti magni”. Resto oscuro anche nell’arte. Non ci sono raffigurazioni attendibili di me. Il primo filosofo dell’antichità ad essere raffigurato fu Socrate: brutto, pover’omo! La bellezza era dentro. Dell’aspetto dei precedenti come me, niente o quasi si conosce.
Non importa, i miei pensieri sono i miei avvenimenti, la mia immagine migliore. Gli scritti eleganti e concisi che mi tramandano e sono giunti a voi e giungeranno a quelli ancora dopo di voi. E ancora, e ancora. Il resto è il destino che ci determina, il declino che ci umilia e la caducità che ci mortifica. Solo il pensiero trova il varco nella rete che ci infinita, fa degli uomini la specie che pensa sé stessa e si commuove. E io sarò stato anche oscuro: la filosofia, la vita, la morte. D’altronde che c’è di facile al mondo? Oscura è la materia, in gran parte, e perfino l’energia, lo scoprirete. Ma un concetto vi ho lasciato chiaro, puro e forte: la coscienza del divenire. Purché ne facciate qualcosa di buono.
Pontedera, Settembre 2021
Marco Celati