Un bel mortorio
di Marco Celati - giovedì 11 febbraio 2016 ore 07:00
Ci deve essere un punto nelle nostre esistenze, in fondo alla vita, in cui il principio e la fine si incontrano e familiarizzano fra loro. "Nel mio principio è la mia fine", chissà se è vero anche il contrario.
La mia nonna, Clelia Morelli, per tutti nonna Crelia, curvata dagli anni e dal ricamo, non usciva più di casa. Gli eventi per lei erano quando un parente o un conoscente se ne andavano per sempre. Lo veniva a sapere da noi o dalle visite di qualche altro familiare. Quando si rincasava, di ritorno dal funerale, ci chiedeva: "Come è andata? È stato un bel mortorio?"
Ogni cosa si deteriora e si perde, tutto si trasforma. Anche l'amore si sciupa, si guasta. Con il tempo anche l'amore, almeno per la mia limitata esperienza. È difficile pensare che non sia così. Tutto ciò che è fisico subisce questa legge. Lo spirito no, o non è detto, e da qui le nostre gioie o sofferenze. Ma anche l'amore spirituale spesso è il dolore che persiste per un distacco o un abbandono oppure non è che un simulacro idealizzato dell'amore. Conosco persone che stanno insieme da tutta una vita e da tutta una vita si amano, o dicono di amarsi. Direbbe Woody Allen che così fanno, o dovrebbero, i cattolici e i piccioni. Forse sono persone fortunate, forse credono davvero in qualcosa che rende sacrale la loro felice unione o forse, sono più portato a credere, il loro amore da passione e sentimento è divenuto regola e dovere familiare, amicizia, compagnia, affetto. E non è meno bello dell'amore passionale, ne convengo. Ma è un fatto che non sono stato capace e per me l'amore non dura, è un sentimento legato al nostro essere che si corrompe con il tempo.
La vita con il tempo e in avverse condizioni diventa difficile viverla, sopportarne il peso. La vita è una perdita di tempo. Comunque la si viva, la si veda e la si giudichi. Comunque si interpreti il nostro essere al mondo. È la perdita del tempo che ci viene dato: il tempo che abbiamo da quando veniamo al mondo a quando moriremo. In fondo la vita è un conto alla rovescia: forse davvero un bel mortorio. Per questo si può scegliere di pensare che si debba vivere bene o che non importi farlo. Personalmente, senza eccessivi entusiasmi, ho cercato di scegliere la prima opzione.
Non credo ad una vita ultraterrena e, dato che questa è l'unica che abbiamo, conviene farci i conti, pur accettando l'idea che moriremo e di noi resterà poco o nulla: affetti e memorie destinate a perdersi. Possiamo tentare di infinitarci con opere o con prole. La prima possibilità è data giustamente a pochi, la seconda altrettanto giustamente a tutti. La prima deriva dal sapere che può essere di ognuno e dall'ingegno che è merce rara, la seconda dipende dalla società e dal nostro senso del futuro ed è riservata comunque, ad altri da noi, a cui doniamo la vita: i figli. Se la scienza o il nostro egoismo facessero vivere ciascuno di noi all'infinito, oltretutto contro le risorse della Terra, sai che palle!
Proprio perché la vita avrà una fine, possiamo dare ad essa un fine: un senso, per quanto possibile. Possiamo, anzi dobbiamo migliorarla per noi e gli altri.
Anche chi crede ad un al di là, ad una vita oltre la vita, può scegliere di vivere bene l'al di qua, in vista dell'approdo ad un mondo che verrà. Oppure può essere fatalista: se Dio vuole... Considero il fatalismo una scelta di fede, eccessiva talora, tanto da sconfinare nel fanatismo e ciò, da laico, mi spaventa. Il fatalismo può anche tradursi in un atteggiamento di rassegnazione che non approvo. Pur non credente sarei più per "l'aiutati che Dio ti aiuta". La parabola evangelica dei talenti mi è sempre sembrata un valido insegnamento per il buon combattimento della vita, oltre che della fede: un po' capitalista, ma il giusto. Il Signore, dispensatore di talenti, biasima chi li ha dispersi e loda e premia chi li messi a frutto e a profitto, non chi li ha semplicemente conservati.
La vita è comunque la nostra esistenza che resiste al tempo che passa o ne asseconda il corso fino alla fine. Noi non sappiamo come vivremo e non vogliamo sapere come moriremo o quando. La scienza e la genetica ce lo potrebbero dire, ma sarà ancora più triste vivere e morire. Spero solo che il progresso scientifico e medico migliorino la mia vita e la mia morte, ma lascino a me e al caso la scelta ed il destino. O alla fortuna, se volete. Se sarò fortunato, ma non credo: non è mai fortunato o felice chi non crede di esserlo stato.
Marco Celati
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Pontedera, 10 Gennaio 2016
"In my beginning is my end" lo scrive Thomas Eliot in "Quattro quartetti", East Coker, traducendo ed invertendo il motto dello stendardo di Maria Stuart: “En ma fin gît mon commencement”: si vede che la regina di Scozia (e consorte di Francia) ne era convinta, nonostante tutto. Come Eraclito che in un frammento (il LXX) afferma: "Il principio e la fine sono la stessa cosa". Questo perché tutto, uno e molteplice, scorre, diviene e niente è? Oppure perché tutto è e sarà in eterno, oltre la vita e la morte? Ah, saperlo, saperlo...
Marco Celati